CORTE D'APPELLO DI MILANO 
                          (Sezione lavoro) 
 
    La Corte d'Appello di Milano, Sezione lavoro, composta da: 
        dott. Giovanni Picciau, Presidente; 
        dott. Giovanni Casella, consigliere relatore; 
        avv. Daniela Macaluso, giudice ausiliario, 
a scioglimento della riserva assunta all'udienza del 23 maggio  2022,
ha pronunciato la seguente ordinanza  nella  causa  civile  in  grado
d'appello avverso l'ordinanza riservata del 27 luglio 2021 emessa dal
Tribunale di Milano - Sezione lavoro, est. dott.ssa De Carlo; 
    Promossa da Moise Ionela Maria, Stoian Gheorghita, Tanasie Stela,
Stoiculescu Florentina, Coruga Alina Daniela, Dumitru  Cristian,  con
gli avv.ti Alberto Guariso, Livio Neri e Ilaria Sticchi; 
    Contro Istituto nazionale previdenza sociale -  INPS  con  l'avv.
Carla Maria Omodei Zorini; 
    Rileva quanto segue. 
1) La vicenda processuale. 
    Con ricorso ex artt. 28, decreto legislativo n. 150/2011 e 44  TU
immigrazione («Azione civile contro la  discriminazione»)  e  702-bis
c.p.c., depositato il 18 novembre 2020, Moise  Ionela  Maria,  Stoian
Gheorghita,  Tanasie  Stela,  Stoiculescu  Florentina,  Coruga  Alina
Daniela,  Dumitru  Cristian  e  Manolea  Mariana  Ancuta,   cittadini
comunitari (romeni) e privi della residenza nello stato italiano  per
almeno dieci anni, hanno convenuto  l'INPS  avanti  al  Tribunale  di
Milano - Sezione lavoro, esponendo di appartenere a famiglie in grave
condizione di fragilita', assistite da molti anni dalla Comunita'  di
Sant'Egidio che le ha sostenute nella  ricerca  dell'alloggio  e  del
lavoro e nell'accompagnamento scolastico dei minori e di aver  avuto,
sia nel 2019 che nel 2020, un indicatore ISEE inferiore a 9.360,00. 
    Cio' premesso, hanno chiesto: 
        preliminarmente: 
          il preventivo rinvio pregiudiziale ex art.  267  TFUE  alla
Corte di giustizia  europea  formulando  il  quesito  riguardante  la
compatibilita' con il  diritto  dell'Unione  dell'art.  2,  comma  1,
lettera a) del decreto-legge n. 4/2019 in relazione al requisito  dei
dieci anni di residenza nello Stato italiano al fine di accedere alla
prestazione di cui e' causa  (Reddito  di  cittadinanza -  RDC):  «Se
l'art. 24, comma 1, direttiva 2004/38 deve  essere  interpretato  nel
senso che osta a una disposizione nazionale in base  alla  quale  una
prestazione di  assistenza  sociale  finalizzata  al  contrasto  alla
poverta' e all'inserimento sociale e lavorativo come  quella  di  cui
all'art. 2,  comma  1,  lettera  a),  decreto-legge  n.  4/2019,  sia
riservata ai soggetti che possono far valere dieci anni di  residenza
in Italia, di  cui  gli  ultimi  due  continuativi,  con  conseguente
esclusione dei cittadini  di  altri  Stati  membri  che,  pur  avendo
esercitato legittimamente il diritto alla mobilita',  avendo  diritto
al soggiorno legale in Italia, ed essendo legalmente soggiornanti  da
oltre tre mesi, non hanno maturato il  predetto  requisito»  «Se,  in
caso di risposta negativa al primo quesito, gli artt. 7, par. 2, e 10
par. 1 del regolamento n. 492/2011 debbano  essere  interpretati  nel
senso che ostano a una disposizione nazionale in base alla quale  una
prestazione di  assistenza  sociale  finalizzata  al  contrasto  alla
poverta' e all'inserimento sociale e lavorativo come  quella  di  cui
all'art. 2,  comma  1,  lettera  a),  decreto-legge  n.  4/2019,  sia
riservata ai soggetti che possono far valere dieci anni di  residenza
in Italia, di  cui  gli  ultimi  due  continuativi,  con  conseguente
esclusione dei cittadini  di  altri  Stati  membri  che,  pur  avendo
diritto al soggiorno in qualita' di lavoratori e di genitori di figli
minori che stanno completando un corso di studi, non  hanno  maturato
il predetto requisito»; 
          l'accertamento della natura discriminatoria della  condotta
assunta dall'ente previdenziale con particolare riguardo, da un lato,
al disposto della circolare n. 43/2019 che prevede il requisito della
residenza  decennale  in  Italia  e,  dall'altro,  alla   sospensione
dell'erogazione del beneficio nei confronti di tutte le ricorrenti ad
eccezione della  sig.ra  Manoela  Mariana  Ancuta  (che  non  ha  mai
presentato domanda); 
        in via principale: 
          la modifica della circolare sopra richiamata e la  condanna
dell'ente previdenziale al pagamento in favore di ciascuna ricorrente
dell'importo spettante a titolo di RDC anche per la parte  successiva
alla sospensione e sino al completamento dei diciotto  mesi  previsti
dalla legge ferma la verifica degli ulteriori requisiti ammettendo le
ricorrenti alle rispettive domande anche per i periodi successivi; 
        in linea subordinata: 
          condannare  l'ente  previdenziale   al   risarcimento   del
supposto danno patito da ciascun ricorrente quale risarcimento per la
subita discriminazione nella  misura  della  prestazione  non  fruita
ulteriormente ordinando  all'INPS  di  ammettere  i  ricorrenti  alla
procedura per l'attribuzione del beneficio; 
          infine, con riferimento alla posizione della sig.ra Manoela
Mariana Ancuta condannare l'ente previdenziale  al  risarcimento  del
danno da discriminazione quantificato in euro 9.000,00  ulteriormente
ordinando di ammettere la predetta alla domanda di RDC  anche  per  i
periodi successivi ferma la verifica  degli  ulteriori  requisiti  di
legge. 
    I ricorrenti hanno sostenuto che il requisito della  decennalita'
della residenza nello Stato italiano richiesto  dalla  norma  per  la
fruizione del beneficio fosse contrastante con  la  normativa  ed  il
diritto comunitario per  violazione  del  diritto  alla  parita'  del
trattamento  ed  al  divieto  di  discriminazione  in  ragione  della
nazionalita'. 
    I ricorrenti hanno evidenziato altresi' l'ipotesi di un contrasto
di tale requisito con la Carta costituzionale,  in  particolare,  con
riferimento agli artt. 3, 4, 35, 38 nonche' 117 della Costituzione. 
    L'INPS si e' costituita  in  giudizio,  contestando  gli  assunti
avversari e domandando il rigetto del ricorso,  previa  eccezione  di
inammissibilita' di quest'ultimo. 
    Il primo giudice, con ordinanza riservata del 27 luglio 2021,  ha
respinto il ricorso, rilevando  la  legittimita'  della  disposizione
nazionale censurata e la conseguente assenza di  discriminazione  nei
confronti delle ricorrenti, condannando queste ultime, in solido  tra
loro, al pagamento delle spese di lite in favore di INPS, determinate
in complessivi euro 3.000,00, oltre spese generali 15% e accessori di
legge. 
    In particolare,  il  tribunale  ha  rigettato,  innanzitutto,  la
domanda  di  Manoela  Mariana  Ancuta   «a   fronte   della   mancata
presentazione  della  domanda,  nemmeno  in  formato  cartaceo,   non
[potendo],  in  concreto,   ritenersi   compiuta   una   qualsivoglia
discriminazione in danno di tale ricorrente ed imputabile  all'INPS».
Nel merito, il tribunale ha ritenuto che  «Nel  caso  di  specie,  in
primo luogo, e'  insussistente  una  discriminazione  diretta  tra  i
cittadini italiani e gli altri dell'UE, in ragione del  tenore  della
previsione normativa contestata da parte ricorrente. Infatti, ..., la
norma parifica il requisito di residenza per entrambe le categorie di
soggetti predetti, risultando cosi' salva la parita'  di  trattamento
tra loro. ... Deve essere  altresi'  esclusa,  nella  fattispecie  in
esame, la sussistenza di una discriminazione indiretta fondata  sulla
nazionalita' in danno dei cittadini comunitari, quali  sono  tutti  i
ricorrenti.  Infatti,  la  concessione  del  reddito,  non   a   caso
denominato  dal  legislatore,  "di   cittadinanza",   presuppone   la
sussistenza  di  un  concreto  e  duraturo   requisito   di   stabile
collegamento  del  richiedente,  cittadino  italiano,  comunitario  o
extracomunitario che sia, con il territorio dello  Stato  italiano  e
con il suo mercato del lavoro. Il legislatore,  nell'introdurre  tale
istituto, ha previsto, infatti, non solo  requisititi  di  reddito  e
patrimoniali, ma anche di collegamento con il  territorio  del  Paese
che lo eroga. 
    La ragionevolezza di una analoga scelta legislativa,  volta  alla
selezione della platea o dei destinatari di  un  beneficio,  e'  gia'
stata oggetto di vaglio da parte della Corte costituzionale,  con  la
sentenza del 15 marzo 2019, n. 50. Tale decisione superava i dubbi di
legittimita' costituzionale riferiti all'assegno sociale,  in  quanto
concesso solo agli aventi diritto che "abbiano soggiornato legalmente
in via continuativa per almeno dieci anni nel territorio  nazionale",
con riguardo ai cittadini extracomunitari (art.  20,  comma  10,  del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112  (Disposizioni  urgenti  per  lo
sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la   competitivita',   la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione  tributaria)
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). La
Corte ha, quindi, ampiamente affrontato il tema del riconoscimento di
tale beneficio, a condizione di un requisito di residenza prolungata.
Peraltro, pur intervenendo con riguardo alla condizione dei cittadini
extracomunitari, la Corte costituzionale afferma  principi  che  sono
applicabili analogamente al caso di  specie  e  alla  condizione  dei
cittadini comunitari ricorrenti». 
    Avverso tale sentenza  Moise  Ionela  Maria,  Stoian  Gheorghita,
Tanasie Stela, Stoiculescu Florentina, Coruga Alina Daniela,  Dumitru
Cristian hanno proposto appello per i seguenti motivi: 
        1) il  primo  giudice  ha  confuso  le  norme  e  i  principi
giurisprudenziali  che  regolano  l'accesso   alle   prestazioni   di
cittadini che non hanno  diritto  al  soggiorno  con  le  norme  e  i
principi applicabili ai cittadini che  hanno  diritto  al  soggiorno,
applicando  alle  ricorrenti  i  primi,  senza  chiedersi   se   esse
rientrassero nel primo o nel secondo gruppo; 
        2)  ha  cosi'  ignorato  che  risulta  incontestato  che   le
ricorrenti hanno diritto al soggiorno (in quanto  e'  stato  ad  esse
riconosciuto  con  l'iscrizione  anagrafica  e,  in  particolare,  le
ricorrenti Moise, Stoicolescu e Stoian  hanno  anche  acquisito  gia'
alla data della domanda del RDC il diritto  al  soggiorno  permanente
essendo regolarmente soggiornanti da oltre cinque anni) e,  comunque,
in quanto lavoratrici ai sensi della direttiva 2004/38 (art. 7,  par.
3), ai sensi della quale il cittadino che cessa di essere  lavoratore
subordinato o autonomo conserva tale qualita' nei seguenti casi: 
          quando abbia lavorato per piu' di un  anno  e  si  sia  poi
registrato come disoccupato (Stoiculescu, Moise e Dumitru); 
          quando abbia  lavorato  per  meno  di  un  anno  e  si  sia
registrato come disoccupato (in tal caso la  qualita'  di  lavoratore
permane ai sensi della direttiva per almeno sei mesi, periodo  esteso
ad un anno dal decreto legislativo di attuazione n. 30/2007, art.  7,
comma 3): e' la condizione della ricorrente Coruga; 
          quando l'interessato abbia lavorato e  sia  temporaneamente
inabile al lavoro: e' la condizione della ricorrente Tanasie, che  e'
titolare di un attestato di invalidita' comunque soggetto a revisione
e dunque di per  se'  non  in  contrasto  con  il  requisito  di  una
«condizione temporanea di invalidita'»; 
          quando l'interessato, indipendentemente dalla sua attivita'
lavorativa piu' o meno lunga, e' familiare di lavoratore  o  comunque
di soggetto che abbia diritto al soggiorno: e' la condizione prevista
dal par. 1, lettera d), dell'art. 7  cit.  della  direttiva,  in  cui
rientrano ancora il  ricorrente  Dumitru  e  le  ricorrenti  Moise  e
Stoicolescu; 
        3) non ha quindi potuto esaminare (avendone negato «a  monte»
l'applicabilita') se un requisito cosi' prolungato contrasti  con  il
predetto principio ex art. 24, par. 1 della direttiva; 
        4)  ha  totalmente  ignorato  l'applicabilita'  o  meno  alla
vicenda dell'art. 7, comma 2, regolamento n. 492/2011 «relativo  alla
libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione». 
    L'INPS si e' regolarmente costituito per il gravame, chiedendo il
rigetto dell'appello e l'integrale conferma dell'ordinanza impugnata. 
    Dopo il deposito di memorie scritte, questa Corte si e' riservata
di valutare le questioni di costituzionalita' discusse tra le parti. 
2) Questione di costituzionalita'. 
    Cio' premesso, questa Corte ritiene di sollevare la questione  di
costituzionalita' in ordine all'art. 2, comma 1, lettera  a),  n.  2)
del decreto-legge n. 4/2019, convertito  in  legge  n.  26/2019,  sia
rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli  artt.  3,
11 e 117, primo comma, della Costituzione (questi ultimi in relazione
agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti  fondamentali  dell'Unione
europea, all'art. 24, comma 1, direttiva  2004/38/CE  del  Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto  dei
cittadini  dell'Unione  e  dei  loro  familiari  di  circolare  e  di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all'art.
7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo  e  del
Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera  circolazione  dei
lavoratori all'interno dell'Unione), atteso che il requisito di lungo
residenza  appare  irragionevole  (per  mancanza  del  requisito   di
ragionevole  correlabilita')  e  discriminatorio  nei  confronti  dei
cittadini UE. 
2.1 Rilevanza. 
    La questione di legittimita' appare assolutamente  rilevante  per
la decisione della presente causa  in  quanto  l'accesso  al  RDC  e'
subordinato al requisito della residenza in Italia per  almeno  dieci
anni, di cui gli ultimi due continuativi. 
    Ne consegue, quindi, che, essendo le ricorrenti in possesso degli
ulteriori presupposti richiesti dalla legge, l'accesso  al  beneficio
dipende solamente dal possesso  o  meno  del  requisito  della  lunga
residenza. 
    Non    puo'    neppure    procedersi    ad     un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma in questione,  preclusa  dal
tenore  letterale  della  disposizione  che  limita  chiaramente   il
beneficio solamente a coloro che possano vantare  tale  requisito  di
lunga residenza. 
    Si puo', dunque, richiamare il principio, ripetutamente affermato
dalla Corte costituzionale (vedi sentenze n. 221/2019 e n.  102/2021,
Corte  costituzionale),  secondo  cui  «l'onere  di   interpretazione
conforme  viene   meno,   lasciando   il   passo   all'incidente   di
costituzionalita', allorche' il tenore letterale  della  disposizione
non consenta tale interpretazione». 
2.2. Non manifesta infondatezza. 
    L'eccezione   di   incostituzionalita',   inoltre,   appare   non
manifestamente infondata in quanto, ad avviso di questo Collegio,  la
norma impugnata pare contrastare con l'art. 3  della  Costituzione  e
con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione
agli artt. 21 e 34 della Carta dei diritti  fondamentali  dell'Unione
europea (che stabiliscono il divieto di discriminazione e diritto  di
accesso alle prestazioni di sicurezza sociale), nonche' all'art.  24,
comma 1, direttiva 2004/38 (che sancisce la  parita'  di  trattamento
dei cittadini dell'Unione in  relazione  al  «diritto  a  prestazioni
d'assistenza sociale» erogate dallo Stato ospitante) e art.  7,  par.
2, del regolamento n. 492/2011 (secondo cui il  lavoratore  cittadino
di uno Stato membro dell'UE «gode degli  stessi  vantaggi  sociali  e
fiscali dei lavoratori nazionali»). 
    In particolare, nella specie, appaiono violati gli artt. 21 e  34
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, di cui  gli
artt. 24, comma 1, direttiva 2004/38 e 7, par. 2, del regolamento  n.
492/2011  costituiscono  concreta  attuazione  nel  diritto  derivato
dell'Unione. 
    L'art. 21, rubricato «Non discriminazione», statuisce -  al  pari
dell'art. 3 della Costituzione - «1. E' vietata  qualsiasi  forma  di
discriminazione fondata, in particolare,  sul  sesso,  la  razza,  il
colore della pelle o l'origine etnica o sociale,  le  caratteristiche
genetiche, la lingua, la religione o  le  convinzioni  personali,  le
opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una
minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap,  l'eta'
o le tendenze sessuali. 
    2. Nell'ambito d'applicazione  del  Trattato  che  istituisce  la
Comunita' europea e  del  Trattato  sull'Unione  europea  e'  vietata
qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve  le
disposizioni particolari contenute nei trattati stessi». 
    L'art. 34 statuisce: «1. L'Unione riconosce e rispetta il diritto
di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali
che assicurano protezione in casi quali la maternita',  la  malattia,
gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che  in
caso di perdita del posto di lavoro, secondo le  modalita'  stabilite
dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali. 
    2. Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente  all'interno
dell'Unione ha diritto alle prestazioni di  sicurezza  sociale  e  ai
benefici  sociali  conformemente  al  diritto  comunitario   e   alle
legislazioni e prassi nazionali. 
    3. Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la  poverta',
l'Unione riconosce e rispetta il  diritto  all'assistenza  sociale  e
all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza  dignitosa  a
tutti coloro che non dispongano di risorse  sufficienti,  secondo  le
modalita' stabilite dal  diritto  comunitario  e  le  legislazioni  e
prassi nazionali». 
    Il  principio  di  parita'  di  trattamento  nel  settore   della
sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE  e  dal  diritto
derivato e poi ribaditi dalla Corte di giustizia dell'Unione europea,
«si raccorda  ai  principi  consacrati  dagli  artt.  3  e  31  della
Costituzione e ne avvalora e illumina il contenuto assiologico,  allo
scopo di promuovere una  piu'  ampia  ed  efficace  integrazione  dei
cittadini  dei  Paesi  terzi»  (Corte  costituzionale,  sentenza   n.
54/2022). 
    Questo Collegio ritiene di sottoporre alla Corte costituzionale i
dubbi di legittimita' costituzionale della norma  in  esame  come  di
seguito riportati. 
2.3 Doppia pregiudizialita'. 
    La  scelta  di  questo  Collegio  di   sollevare   questione   di
costituzionalita' si giustifica in considerazione del  fatto  che  la
norma interna sopra citata viola non solo  principi  eurounitari,  ma
anche principi costituzionali (vedi sentenze n. 269/2017, n. 20/2019,
n. 63/2019, n. 112/2019, n. 117/2019,  n.  11/2020,  n.  44/2020,  n.
182/2021 Corte costituzionale). 
    In particolare, nella citata sentenza  n.  269/2017,  il  giudice
delle   leggi   ha   affrontato   la    questione    della    «doppia
pregiudizialita'», fissando le seguenti  regole:  «Fermi  restando  i
principi del primato e dell'effetto diretto del  diritto  dell'Unione
europea come sin qui consolidatisi  nella  giurisprudenza  europea  e
costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti
costituisce  parte  del  diritto  dell'Unione  dotata  di   caratteri
peculiari in  ragione  del  suo  contenuto  di  impronta  tipicamente
costituzionale.  I  principi  e  i  diritti  enunciati  nella   Carta
intersecano in larga misura i principi e i  diritti  garantiti  dalla
Costituzione italiana (e dalle  altre  Costituzioni  nazionali  degli
Stati membri). Sicche' puo' darsi il caso che  la  violazione  di  un
diritto  della  persona  infranga,  ad  un  tempo,  sia  le  garanzie
presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle  codificate  dalla
Carta  dei  diritti  dell'Unione,  come  e'  accaduto  da  ultimo  in
riferimento al principio di legalita' dei reati e delle  pene  (Corte
di giustizia dell'Unione europea, Sezione grande, sentenza 5 dicembre
2017, nella causa C-42/17, M.A.S., M.B.). 
    Pertanto, le violazioni dei diritti della  persona  postulano  la
necessita' di un intervento erga omnes  di  questa  Corte,  anche  in
virtu'  del  principio  che  situa   il   sindacato   accentrato   di
costituzionalita'  delle   leggi   a   fondamento   dell'architettura
costituzionale (art. 134 della Costituzione).  La  Corte  giudichera'
alla luce dei parametri interni ed eventualmente  di  quelli  europei
(ex artt. 11 e 117 della Costituzione), secondo l'ordine di volta  in
volta  appropriato,  anche  al  fine  di  assicurare  che  i  diritti
garantiti dalla  citata  Carta  dei  diritti  siano  interpretati  in
armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall'art. 6
del Trattato sull'Unione europea e dall'art. 52, comma 4, della CDFUE
come fonti rilevanti in tale ambito. In senso analogo, del resto,  si
sono  orientate  altre  Corti  costituzionali  nazionali  di   antica
tradizione  (si  veda  ad  esempio  Corte  costituzionale  austriaca,
sentenza 14 marzo 2012, U 466/11-18; U 1836/11-13). 
    Il  tutto,  peraltro,  in  un  quadro  di  costruttiva  e   leale
cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel  quale  le  Corti
costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di
giustizia (da ultimo,  ordinanza  n.  24  del  2017),  affinche'  sia
assicurata la massima salvaguardia dei diritti  a  livello  sistemico
(art. 53 della CDFUE). 
    D'altra parte, la sopravvenienza delle garanzie approntate  dalla
CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana puo' generare  un
concorso di rimedi giurisdizionali. A tale  proposito,  di  fronte  a
casi di "doppia pregiudizialita'" - vale a dire di  controversie  che
possono dare luogo a questioni di  illegittimita'  costituzionale  e,
simultaneamente,  a  questioni  di  compatibilita'  con  il   diritto
dell'Unione -, la stessa Corte di giustizia ha a sua volta  affermato
che il diritto dell'Unione "non osta" al  carattere  prioritario  del
giudizio   di   costituzionalita'   di   competenza    delle    Corti
costituzionali nazionali, purche' i giudici ordinari  restino  liberi
di sottoporre  alla  Corte  di  giustizia,  "in  qualunque  fase  del
procedimento  ritengano  appropriata  e  finanche  al   termine   del
procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi
questione pregiudiziale a loro  giudizio  necessaria";  di  "adottare
qualsiasi misura necessaria per garantire la  tutela  giurisdizionale
provvisoria  dei   diritti   conferiti   dall'ordinamento   giuridico
dell'Unione"; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di
legittimita' costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in
questione che abbia superato il vaglio di costituzionalita', ove, per
altri profili, la ritengano contraria al diritto dell'Unione (tra  le
altre,  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea,  Sezione  quinta,
sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A contro B e  altri;
Corte di giustizia dell'Unione europea, Sezione grande,  sentenza  22
giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli). 
    In linea con  questi  orientamenti,  questa  Corte  ritiene  che,
laddove una legge sia oggetto di dubbi  di  illegittimita'  tanto  in
riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione  italiana,  quanto
in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti  fondamentali
dell'Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba  essere
sollevata la questione di legittimita' costituzionale, fatto salvo il
ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di  interpretazione
o di invalidita' del diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 267  del
TFUE». 
    Anche successivamente, la Corte costituzionale si e'  attenuta  a
tale impostazione  con  le  sentenze  n.  20/2019,  n.  112/2019,  n.
117/2019, n. 11/2020, n. 44/2020 e n. 182/2021. 
    Non appare in contraddizione con  l'ormai  costante  orientamento
sulla doppia pregiudizialita' la sentenza n.  67  del  2022,  che  ha
ritenuto inammissibile per irrilevanza una questione sollevata  dalla
Corte di cassazione in materia di attribuzione  dell'assegno  per  il
nucleo  familiare,  osservando  che  il  rimettente  avrebbe   potuto
disapplicare  il  diritto  interno  contrastante   con   il   diritto
dell'Unione. In quel caso, infatti, non veniva evocato dal rimettente
alcun diritto fondamentale garantito  dalla  Carta,  ma  si  trattava
piuttosto di dare applicazione  a  (sole)  disposizioni  del  diritto
derivato UE,  nell'interpretazione  gia'  fornitane  dalla  Corte  di
giustizia proprio a seguito di  un  rinvio  pregiudiziale  effettuato
dallo stesso giudice rimettente. 
2.4 Quadro normativo e Corte costituzionale n. 19/2022. 
    Passando al merito della  questione,  e'  opportuno  sintetizzare
preliminarmente  la   disciplina   del   reddito   di   cittadinanza,
richiamando, a  tal  proposito,  quanto  gia'  rilevato  dalla  Corte
costituzionale nella recente sentenza n. 19/2022: 
    «Il  decreto-legge  n.  4  del  2019,  come  convertito,  che  lo
istituisce, lo definisce "misura fondamentale di politica attiva  del
lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla  poverta',
alla disuguaglianza e all'esclusione sociale [...]", e  lo  qualifica
"livello  essenziale  delle  prestazioni  nei  limiti  delle  risorse
disponibili" (art. 1, comma 1).  Il  citato  decreto-legge  e'  stato
oggetto  di  modifiche  (non  significative  ai  fini  del   presente
giudizio) ad opera della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio  di
previsione  dello  Stato  per  l'anno  finanziario  2022  e  bilancio
pluriennale per il triennio 2022-2024). 
    Il reddito di cittadinanza consiste in un beneficio economico che
costituisce un'"integrazione del reddito familiare" fino alla  soglia
di 6.000,00 euro annui (incrementata a  seconda  dei  componenti  del
nucleo familiare), alla quale si puo' aggiungere un'integrazione  del
reddito dei nuclei familiari locatari di un'abitazione,  fino  ad  un
massimo di 3.360,00 euro annui (art. 3, comma  1).  Il  beneficio  e'
riconosciuto "per un periodo continuativo non  superiore  a  diciotto
mesi" e puo' essere rinnovato, previa sospensione di un mese prima di
ciascun rinnovo (art. 3, comma 6). 
    La  sua  erogazione  "e'  condizionata  alla   dichiarazione   di
immediata disponibilita' al lavoro da parte dei componenti il  nucleo
familiare maggiorenni, [...]  nonche'  all'adesione  ad  un  percorso
personalizzato  di  accompagnamento  all'inserimento   lavorativo   e
all'inclusione  sociale  che  prevede  attivita'  al  servizio  della
comunita', di riqualificazione professionale, di completamento  degli
studi, nonche'  altri  impegni  individuati  dai  servizi  competenti
finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro  e  all'inclusione
sociale"» (art. 4, comma 1). Questo percorso si  realizza  o  con  il
Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l'impiego  e  che
«deve contenere gli obblighi e gli  impegni  previsti  dal  comma  8,
lettera b», che  riguardano  essenzialmente  la  ricerca  attiva  del
lavoro e l'accettazione delle offerte congrue) o  con  il  Patto  per
l'inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali  competenti
per il contrasto della poverta' (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta  di
due «canali» comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal
centro per l'impiego  puo' essere  inviato  al  servizio  comunale  e
viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il  Patto  per  l'inclusione
sociale  comprende  anche  gli  «interventi   per   l'accompagnamento
all'inserimento lavorativo» (art. 4, comma 13). 
    Nell'ambito di entrambi i patti, «il beneficiario  e'  tenuto  ad
offrire [...] la  propria  disponibilita'  per  la  partecipazione  a
progetti a titolarita'  dei  comuni,  utili  alla  collettivita',  in
ambito culturale, sociale,  artistico,  ambientale,  formativo  e  di
tutela dei beni comuni, da svolgere  presso  il  medesimo  comune  di
residenza, mettendo a disposizione un numero di ore  compatibile  con
le altre attivita' del  beneficiario  e  comunque  non  inferiore  al
numero di otto ore settimanali [...]» (art. 4, comma 15). Rispetto al
precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito  di
cittadinanza  si  caratterizza  per   una   spiccata   finalizzazione
all'inserimento lavorativo e per un piu' stringente meccanismo  della
condizionalita', cioe' per un'accentuazione degli impegni assunti dai
beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di
cittadinanza e' destinato a una platea piu' ampia di beneficiari,  in
quanto e' prevista una soglia economica d'accesso piu' alta (art.  2,
comma 1, lettera b). 
    Per altro verso, come visto, il decreto-legge n. 4 del 2019, come
convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo  necessario
di residenza in Italia (da due a dieci anni). 
    L'art.  12  del  citato  decreto-legge  detta   le   disposizioni
finanziarie per l'attuazione del reddito di cittadinanza, fissando un
limite legislativo di  spesa.  Il  comma  1  determina  la  provvista
finanziaria per  l'erogazione  del  RDC,  autorizzando  la  spesa  di
5.907,00 milioni di euro per il 2019,  di  7.167,00  milioni  per  il
2020, di 7.391,00 milioni per il 2021 e di 7.246,00 milioni  annui  a
decorrere dal 2022, con imputazione ad apposito capitolo dello  stato
di previsione del Ministero del  lavoro,  denominato  «Fondo  per  il
reddito di cittadinanza».  Tale  autorizzazione  di  spesa  e'  stata
incrementata dapprima dall'art. 1, comma 371, della legge 30 dicembre
2020,  n.  178  (Bilancio  di  previsione  dello  Stato  per   l'anno
finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il  triennio  2021-2023),
poi, per la somma di 1.000,00 milioni di euro limitatamente  all'anno
2021, dall'art. 11, comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021,  n.  41
(Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli  operatori
economici,  di  lavoro,  salute  e  servizi  territoriali,   connesse
all'emergenza da  COVID-19),  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 21 maggio 2021, n. 69, e infine, sempre  per  il  2021  per  la
somma di  200,00  milioni  di  euro,  dall'art.  11,  comma  13,  del
decreto-legge 21 ottobre 2021, n.  146  (Misure  urgenti  in  materia
economica  e  fiscale,  a  tutela   del   lavoro   e   per   esigenze
indifferibili),  convertito,  con  modificazioni,  dalla   legge   17
dicembre 2021, n. 215. Per gli anni 2022 e seguenti  l'autorizzazione
di spesa di cui all'art. 12, comma 1,  del  decreto-legge  n.  4  del
2019, come convertito, e' stata incrementata dall'art. 1,  comma  73,
della legge n. 234 del 2021, per  una  somma  di  poco  superiore  ai
1.000,00 milioni all'anno. 
    L'art. 12, comma  9,  del  decreto-legge  n.  4  del  2019,  come
convertito, prevede che, «[i]n  caso  di  esaurimento  delle  risorse
disponibili per l'esercizio di riferimento  ai  sensi  del  comma  1,
[...] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche  sociali,
di concerto  con  il  Ministro  dell'economia  e  delle  finanze,  da
adottarsi entro trenta giorni dall'esaurimento di dette  risorse,  e'
ristabilita  la  compatibilita'  finanziaria  mediante  rimodulazione
dell'ammontare del beneficio». 
2.5 La «natura» del RDC. 
    La Corte costituzionale,  con  tale  sentenza,  ha  compiutamente
tratteggiato la natura del RDC, evidenziandone i caratteri  peculiari
che lo  differenziano  dalle  misure  esclusivamente  «assistenziali»
(come l'assegno sociale), puntualizzando quanto segue: 
        «il reddito di cittadinanza,  pur  presentando  anche  tratti
propri di una misura di contrasto alla poverta', non  si  risolve  in
una  provvidenza  assistenziale  diretta  a  soddisfare  un   bisogno
primario  dell'individuo,  ma  persegue  diversi  e  piu'  articolati
obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale.  A
tale  sua  prevalente  connotazione  si  collegano  coerentemente  la
temporaneita' della prestazione  e  il  suo  carattere  condizionale,
cioe' la necessita' che ad essa si accompagnino precisi  impegni  dei
destinatari, definiti in patti sottoscritti  da  tutti  i  componenti
maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all'art.
4, commi 2 e 3, del decreto-legge n. 4 del 2019). E' inoltre prevista
la decadenza dal beneficio nel caso in cui  un  solo  componente  non
rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del  decreto-legge  n.  4  del
2019)». 
2.6 Permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo. 
    Con la citata  sentenza,  la  Corte  costituzionale,  chiamata  a
delibare il denunciato contrasto tra l'art. 3 della Costituzione e il
requisito per gli stranieri di possedere il permesso di soggiorno  UE
per soggiornanti di lungo periodo, ha  escluso  l'incostituzionalita'
della norma sulla base della seguente argomentazione: 
    «occorre verificare se esista una ragionevole correlazione tra il
requisito fissato dalla norma censurata e la  ratio  del  reddito  di
cittadinanza. Come gia' ampiamente sottolineato, tale provvidenza non
si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce  una  misura
piu' articolata, comportante anche l'assunzione  di  precisi  impegni
dei  beneficiari,  diretta   ad   immettere   il   nucleo   familiare
beneficiario  in  un  "percorso  personalizzato  di   accompagnamento
all'inserimento  lavorativo  e  all'inclusione  sociale  che  prevede
attivita'  al   servizio   della   comunita',   di   riqualificazione
professionale, di completamento degli studi,  nonche'  altri  impegni
individuati dai servizi competenti  finalizzati  all'inserimento  nel
mercato del lavoro e all'inclusione sociale" (art. 4,  comma  1,  del
decreto-legge n. 4 del 2019, come convertito). Va considerato inoltre
che la durata del beneficio economico e' di diciotto mesi (permanendo
i requisiti), con possibilita' di rinnovo (art. 3, comma 6). 
    L'orizzonte  temporale  della  misura  non  e'  dunque  di  breve
periodo, considerando sia la durata del beneficio  sia  il  risultato
perseguito.  Gli  obiettivi  dell'intervento  implicano  infatti  una
complessa operazione di  inclusione  sociale  e  lavorativa,  che  il
legislatore,   nell'esercizio   della   sua   discrezionalita',   non
irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in  Italia
a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine
del  reddito  di  cittadinanza,  la  titolarita'   del   diritto   di
soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come  un  requisito
privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicche'  la
scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti,  ma  pur
sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio,  non  puo'
essere   giudicata   esorbitante   rispetto    ai    confini    della
ragionevolezza». 
    Tali conclusioni sono assolutamente  coerenti  con  la  pregressa
giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo  cui,  in  materia
sociale, le prestazioni legate ai bisogni  essenziali  della  persona
debbono essere riconosciute  a  cittadini  e  stranieri  regolarmente
soggiornanti (vedi, ad es., sentenza n. 230/2015 con riferimento alla
pensione  di  invalidita'  civile   per   sordi   e   indennita'   di
comunicazione;  sentenza  n.  22/2015  relativa   all'indennita'   di
accompagnamento per cieco ventesimista; sentenza n. 40/2013  in  tema
di pensione di inabilita' civile  e  indennita'  di  accompagnamento;
sentenza n. 329/2011 in relazione  all'indennita'  di  frequenza  per
minori invalidi; sentenza n. 187/2010 in materia di  assegno  mensile
di invalidita', mentre per le prestazioni che vanno oltre  il  nucleo
dei bisogni essenziali possono essere introdotti requisiti  selettivi
per  i  beneficiari,  a  condizione  che  rispettino  il  canone   di
ragionevole correlabilita'. 
2.7 Ragionevole correlabilita'. 
    Al di fuori del «nucleo essenziale», quindi, il legislatore  (sia
nazionale che locale) non gode di una totale  discrezionalita'  nello
stabilire i criteri selettivi  dei  beneficiari,  essendo  necessario
rispettare  il  principio  di  «ragionevole   correlabilita'».   Tale
principio, infatti, e' stato ritenuto dalla Corte costituzionale come
indispensabile filtro per verificare la  ragionevolezza  dei  criteri
selettivi  posti  dall'ordinamento  per  l'accesso  alle  prestazioni
sociali. 
    Con sentenza n. 137/2021, la Corte costituzionale ha ribadito che
«il legislatore  puo'  legittimamente  circoscrivere  la  platea  dei
beneficiari delle stesse prestazioni sociali, purche' le  sue  scelte
rispettino rigorosamente il canone di ragionevolezza; trattandosi  di
provvidenze a tutela  di  soggetti  fragili,  infatti,  le  eventuali
limitazioni  all'accesso  devono  esprimere  un'esigenza   chiara   e
razionale, senza determinare  discriminazioni  (sentenze  n.  50  del
2019, n. 166 del 2018, n. 133 del 2013 e n. 432 del 2005)». 
    In particolare, la Corte, nella sentenza n. 432/2005, riguardante
una legge della Regione Lombardia che riservava il trasporto gratuito
per gli invalidi sulle linee regionali ai soli cittadini italiani, ha
affermato: «distinguere, ai fini della applicabilita' della misura in
questione, cittadini italiani da cittadini  di  paesi  stranieri  ...
finisce dunque per  introdurre  nel  tessuto  normativo  elementi  di
distinzione del tutto arbitrari,  non  essendovi  alcuna  ragionevole
correlabilita' tra quella condizione positiva di  ammissibilita'  del
beneficio (la cittadinanza italiana, appunto) e gli  altri  peculiari
requisiti (invalidita' al 100% e residenza) che  ne  condizionano  il
riconoscimento e ne definiscono la ratio e la funzione». 
    Dev'essere, quindi, escluso che il principio  della  «ragionevole
correlabilita'» consenta di  utilizzare  esclusivamente  il  criterio
della cittadinanza. 
    Una norma assistenziale, infatti, ha come  sua  ratio  quella  di
accordare un beneficio di sostegno. L'esclusione  di  chi  sia  privo
dello status civitatis si basa su una condizione personale di per se'
irrilevante rispetto al bisogno e dunque completamente estranea  alla
ratio del sostegno. Conseguentemente, il criterio della  cittadinanza
non potrebbe mai essere introdotto, neppure per prestazioni del tutto
esterne al nucleo essenziale. 
2.8 Radicamento territoriale. 
    Anche  il  criterio  selettivo  costituito  dal   requisito   del
cosiddetto «radicamento territoriale», cioe' della  presenza  per  un
periodo sufficientemente lungo sul territorio nazionale o  regionale,
e' stato oggetto di vaglio da  parte  della  Corte  costituzionale  e
della CGUE. 
    E' proprio tale requisito che  assume  rilevanza  nella  presente
causa, avendo il legislatore condizionato l'accesso al beneficio  del
RDC al requisito della residenza di almeno dieci anni nel  territorio
nazionale. 
    In via generale, la Corte costituzionale (vedi sentenza 20 luglio
2018, n. 166) ha affermato che «ogni norma  che  imponga  distinzioni
fra varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e  della
residenza per regolare l'accesso alle prestazioni  sociali  deve  pur
sempre rispondere al principio di  ragionevolezza  ex  art.  3  della
Costituzione (...) tale  principio  puo'  ritenersi  rispettato  solo
qualora esista una "causa normativa" della differenziazione, che  sia
"giustificata da una ragionevole correlazione tra la  condizione  cui
e' subordinata l'attribuzione del beneficio  e  gli  altri  peculiari
requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne  definiscono  la
ratio" (sentenza n. 107  del  2018).  Una  simile  ragionevole  causa
normativa puo' in astratto consistere nella richiesta  di  un  titolo
che dimostri il carattere non  episodico  o  di  breve  durata  della
permanenza  sul  territorio  dello  Stato:  anche  in  questi   casi,
peraltro,  occorre  pur   sempre   che   sussista   una   ragionevole
correlazione tra la  richiesta  e  le  situazioni  di  bisogno  o  di
disagio, in vista delle  quali  le  singole  prestazioni  sono  state
previste (sentenza n. 133 del 2013). 
    Infine - continua la  Corte  costituzionale  -  "occorre  che  la
distinzione non si traduca mai nell'esclusione del non cittadino  dal
godimento dei diritti fondamentali che attengono ai 'bisogni primari'
della  persona,  indifferenziabili  e  indilazionabili,  riconosciuti
invece ai  cittadini  (come  precisato  in  progresso  di  tempo,  ad
esempio, dalle sentenze n. 306 del 2008, n. 187 del 2010, n. 2, n. 40
e n. 172 del 2013, n. 22 e n. 230 del 2015, n. 107  del  2018).  Piu'
specificamente,   in   relazione   al   requisito   della   residenza
qualificata, [la] Corte con la sentenza n. 222 del 2013  ha  ritenuto
che le politiche  sociali  dirette  al  soddisfacimento  dei  bisogni
abitativi  possono  prendere   in   considerazione   un   radicamento
territoriale ulteriore  rispetto  alla  semplice  residenza,  purche'
contenuto in limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli"». 
    La Corte costituzionale, quindi, piu' volte chiamata a verificare
la  legittimita'  dei   requisiti   di   lungo-residenza   variamente
introdotti dalle  norme  regionali,  ha  dichiarato  incostituzionali
tutte le disposizioni che prevedono requisiti di lungo-residenza  per
i soli cittadini stranieri, differenziando in modo  illegittimo,  sia
pure  mediante  il  riferimento  alla  residenza,  la  posizione  dei
cittadini italiani e quella degli stranieri. Proprio  per  questo  la
Corte  ha  dichiarato  incostituzionali  i  seguenti   requisiti   di
residenza nella regione  (ove  la  provvidenza  e'  stata  istituita)
previsti per i soli stranieri: 
        trentasei  mesi  per  tutte  le  prestazioni  sociali  (Corte
costituzionale n. 40/2011 - Regione Friuli: in questo caso, la  legge
regionale aveva previsto che il «diritto ad accedere agli  interventi
e ai servizi del sistema integrato»  fosse  riconosciuto  soltanto  a
«tutti  i  cittadini  comunitari  residenti  in  regione  da   almeno
trentasei mesi»); 
        cinque anni per un assegno familiare (Corte costituzionale n.
133/2013 - Regione Trentino-Alto Adige); 
        cinque anni sul territorio nazionale per tutte le prestazioni
(Corte costituzionale n. 222/2013 - Regione Friuli); 
        cinque anni per le prestazioni sociali  di  natura  economica
(Corte costituzionale n. 2/2013 - Provincia Bolzano); 
        cinque anni  per  prestazioni  per  il  diritto  allo  studio
universitario (Corte costituzionale n. 2/2013 - Provincia Bolzano); 
        un  anno  per  sovvenzioni  all'apprendimento  delle   lingue
straniere (Corte costituzionale n. 2/2013 - Provincia Bolzano); 
        cinque  anni  sul  territorio  nazionale  (quale   componente
dell'accesso al permesso di lungo  periodo)  per  l'assegno  di  cura
(Corte costituzionale n. 172/2013). 
    Piu' complessa si pone  la  questione  (che  qui  interessa)  dei
requisiti di residenza  previsti  indifferentemente  per  italiani  e
stranieri. 
    Sul punto, come detto, la Corte costituzionale e'  orientata  nel
senso che il criterio selettivo della residenza «non  episodica»  sul
territorio risponda ai criteri di «ragionevole correlabilita'» e che,
per le prestazioni «non essenziali», sia anche ragionevole richiedere
un certo «radicamento territoriale»  purche'  senza  distinzioni  tra
italiani e stranieri. 
    La Corte infatti (vedi, ad es., sentenze n. 40/2011 e n.  2/2013)
ha affermato il principio secondo cui: «E' possibile subordinare, non
irragionevolmente, l'erogazione di determinate  prestazioni  sociali,
non  dirette  a  rimediare  a  gravi  situazioni  di  urgenza,   alla
circostanza che il titolo  di  legittimazione  dello  straniero  alla
permanenza ne dimostri il carattere non episodico». 
2.9  Il  requisito   della   residenza   protratta   per   un   tempo
sproporzionato. 
    Non risponde invece ai requisiti di ragionevole correlabilita' il
requisito della residenza protratta per un tempo sproporzionato. 
    La Corte, infatti, ha sempre affermato che, «mentre la  residenza
costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, "un  criterio  non
irragionevole per l'attuazione del beneficio", non  altrettanto  puo'
dirsi  quanto  alla  residenza  protratta  per  un  predeterminato  e
significativo periodo  di  tempo  (nella  specie,  quinquennale).  La
previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale
e dirimente, non risulta rispettoso dei principi di ragionevolezza  e
di uguaglianza, in quanto introduce nel tessuto normativo elementi di
distinzione arbitrari non essendovi alcuna  ragionevole  correlazione
tra la durata della  residenza  e  le  situazioni  di  bisogno  o  di
disagio, riferibili direttamente alla persona  in  quanto  tale,  che
costituiscono il presupposto  di  fruibilita'  delle  provvidenze  in
questione» (sentenza n. 222/2013), non essendo possibile  «presumere,
in termini assoluti, che lo stato di bisogno di  chi  risieda  su  un
territorio da un periodo inferiore a  quello  richiesto,  sia  minore
rispetto a quello di chi vi  risiede  da  piu'  tempo»  (sentenza  n.
40/2011). 
    Reiterando costantemente argomentazioni di questo tipo, la  Corte
ha dichiarato incostituzionali i seguenti requisiti previsti  per  la
generalita' dei richiedenti, italiani e stranieri: 
        tre anni di residenza ininterrotta nella Provincia di  Trento
per un «assegno di cura» (sentenza n. 172/2013); 
        ventiquattro mesi nella Regione Friuli per l'accesso al Fondo
regionale per il contrasto ai fenomeni di poverta' e disagio  sociale
e  per  il  diritto  a  percepire  assegni  di  studio  (sentenza  n.
222/2013); 
        otto anni nella Regione  Valle  d'Aosta  per  l'accesso  agli
alloggi ERP (sentenza n. 168/2014); 
        almeno cinque anni nel periodo immediatamente  precedente  la
data di presentazione  della  domanda  per  beneficiare  dei  servizi
abitativi pubblici nella Regione Lombardia (sentenza n. 44/2020). 
    In sostanza, tali  sentenze  non  fanno  altro  che  ribadire  il
principio fondamentale, sempre affermato dalla Corte  costituzionale,
secondo cui il requisito del radicamento territoriale puo' fungere da
ragionevole  criterio   selettivo   solamente   in   relazione   alle
provvidenze non correlate a situazioni di  bisogno  o  di  disagio  e
dirette,  quindi,  a  soddisfare  finalita'   eccedenti   il   nucleo
intangibile dei diritti fondamentali della persona, solo se  risponde
ad un criterio di proporzionalita' e ragionevolezza. 
    La CGUE, chiamata a vagliare la compatibilita' con  la  normativa
europea del requisito del soggiorno pregresso  sul  territorio  dello
Stato richiesto per beneficiare di una prestazione di inabilita',  ha
affermato che «se e' pur vero che le  modalita'  di  applicazione  di
tale  requisito  non  appaiono  di  per  se'  irragionevoli,  occorre
nondimeno rilevare che esso presenta un carattere  troppo  esclusivo.
Infatti, imponendo  periodi  specifici  di  soggiorno  pregresso  sul
territorio dello Stato membro competente, il requisito  di  soggiorno
pregresso  privilegia  indebitamente   un   elemento   che   non   e'
necessariamente rappresentativo  del  grado  reale  ed  effettivo  di
collegamento  tra  il  richiedente  una  prestazione  per  inabilita'
temporanea per  giovani  disabili  ed  il  detto  Stato  membro,  con
esclusione di ogni altro elemento rappresentativo. Esso eccede in tal
modo  quanto  necessario  per  raggiungere  l'obiettivo   perseguito»
(sentenza  1°  luglio  2011,  causa  C-503/09,  Stewart-Regno  Unito,
ripresa dalla successiva sentenza 4  ottobre  2013,  causa  C-220/12,
Meneses-Region Hannover che, in tema di bonus studio, ha ribadito che
«la prova  richiesta  da  uno  Stato  membro  per  poter  far  valere
l'esistenza  di  un  grado  reale  di  collegamento  non  deve  avere
carattere troppo esclusivo, privilegiando indebitamente  un  elemento
non necessariamente rappresentativo del grado reale ed  effettivo  di
collegamento tra il richiedente e lo Stato membro medesimo,  restando
escluso qualsiasi altro elemento rappresentativo»). 
    La sola residenza, quindi, non  puo'  integrare  di  per  se'  un
criterio affidabile che possa attestare un effettivo collegamento con
lo Stato che eroga la provvidenza. 
2.10 Discriminazione indiretta. 
    Va altresi' rilevato come  la  giurisprudenza  della  CGUE  abbia
sempre dato per scontato che un requisito  di  lungo-residenza  possa
costituire   una   discriminazione   indiretta   in   ragione   della
cittadinanza, senza necessita' di appoggiarsi a un  particolare  dato
statistico. 
    In  particolare,  la  CGUE,  con  sentenza   16   gennaio   2003,
Commissione c. Repubblica italiana,  causa  C-388/01  (relativa  alle
agevolazioni tariffarie per l'accesso ai  Musei  comunali  assicurate
alle sole persone residenti), ha affermato:  «13.  Risulta  del  pari
dalla giurisprudenza della Corte  (v.,  in  particolare,  sentenza  5
dicembre 1989, causa C-3/88,  Commissione/Italia,  Race,  pag.  4035,
punto 8) che il principio di parita' di trattamento, del quale l'art.
49 CE e' specifica espressione, vieta non soltanto le discriminazioni
palesi  basate  sulla  cittadinanza;  ma  anche  qualsiasi  forma  di
discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri
distintivi, produca,  in  pratica,  lo  stesso  risultato.  14.  Cio'
avviene, in particolare, nel caso  di  una  misura  che  preveda  una
distinzione  basata  sul  criterio   della   residenza,   in   quanto
quest'ultimo rischia di operare principalmente a danno dei  cittadini
di altri Stati membri, considerato che il  piu'  delle  volte  i  non
residenti sono cittadini di altri Stati membri (v.,  in  particolare,
sentenza 29 aprile 1999, causa C-224/97, Ciola, Race,  punto  14).  A
tale riguardo e' irrilevante  che  la  misura  controversa  riguardi,
eventualmente, tanto i cittadini italiani residenti nelle altre parti
del territorio nazionale quanto i cittadini degli altri Stati membri.
Perche' una misura possa essere qualificata come discriminatoria  non
e' necessario che abbia  l'effetto  di  favorire  tutti  i  cittadini
nazionali o di discriminare soltanto i cittadini  degli  altri  Stati
membri  esclusi  i  cittadini  nazionali  (v.,  in  tal   senso,   in
particolare sentenza 6 giugno 2000, causa C-281/98,  Angonese,  Race,
pag. 1-4139, punto 41).» 
    Nello  stesso  senso,  la  CGUE,  con  sentenza  10  marzo  1993,
Commissione  c.  Lussemburgo,  causa  C-111/91   (relativa   ad   una
disposizione che prevedeva, ai fini dell'erogazione di un assegno  di
natalita'  una  tantum,  il  requisito  di  anzianita'  di  residenza
nell'anno antecedente alla nascita) aveva gia' chiarito che «le norme
del Trattato e dell'art. 7 del regolamento n. 1612/1968 in materia di
parita' di trattamento vietano non soltanto le discriminazioni palesi
basate  sulla  cittadinanza,  ma  anche   qualsiasi   discriminazione
dissimulata che, pur fondandosi  su  altri  criteri  di  riferimento,
pervenga al medesimo risultato  (sentenza  12  febbraio  1974,  causa
152/73, Sotgiu, Race, pag. 153, punto 11 della motivazione). 10. Tale
e' appunto il caso del requisito che la  madre  abbia  risieduto  nel
territorio del Granducato durante l'intero anno precedente la nascita
del bambino. Un requisito  del  genere,  infatti,  puo'  essere  piu'
facilmente soddisfatto da una cittadina  lussemburghese  che  da  una
cittadina di un altro Stato membro (v.  sentenza  17  novembre  1992,
causa C-279/89, Commissione/Regno Unito, Race, pag. 1-5785, punto  42
della motivazione». 
    Cio' che la Corte di giustizia vuole sottolineare, quindi, e' che
la  percentuale  di  cittadini  che  risiedono  da  lungo  tempo  sul
territorio nazionale  (o  regionale)  e'  certamente  superiore  alla
corrispondente percentuale di stranieri. Conseguentemente, un  simile
criterio, basato sulla lunga residenza, finisce per costituire  -  di
norma - una discriminazione indiretta tra cittadini e stranieri. 
2.11 Corte costituzionale n. 19/2022: Prospettiva di stabilita'. 
    In  questo  quadro  giurisprudenziale  (definito   dalle   citate
sentenze della Corte costituzionale sul principio  della  ragionevole
correlabilita'  e  da  quelle  della  CGUE  sulla  discriminatorieta'
indiretta) si colloca la citata decisione della Corte  costituzionale
n. 19/2022 il cui esito negativo non e' dirimente  per  la  questione
odierna. 
    Dalle motivazioni di tale sentenza emerge, infatti, che cio'  che
sorregge la «ragionevole correlabilita'» tra requisito  del  permesso
di lungo periodo e ratio della prestazione non e' tanto il  pregresso
inserimento sociale del richiedente (che sarebbe inesigibile  da  chi
appunto accede a una prestazione volta all'inserimento  sociale,  non
potendo  essere  l'inserimento  sociale  ad  un  tempo  requisito   e
finalita' della prestazione), ne'  la  pregressa  residenza  (che  la
Corte non considera affatto nel punto della motivazione dedicato alla
«ragionevole correlabilita'»), ma esclusivamente la  natura  a  tempo
indeterminato del permesso. 
    Dunque, il fondamento della  ritenuta  «ragionevolezza»  e'  solo
nella  prospettiva  di  stabilita',  attestata  dal  fatto   che   il
beneficiario non deve sottoporsi ogni  due  anni  alla  verifica  del
titolo di soggiorno. 
    La Corte prescinde, quindi, totalmente dal fatto che il requisito
del permesso di lungo periodo comporta anche una  presenza  pregressa
di almeno cinque anni e non considera questo  un  elemento  utile  al
fine della giustificazione del requisito. 
    Considera, invece, che il lungo-soggiornante  ha  un  permesso  a
tempo indeterminato e percio'  e'  ragionevole  riservare  a  lui  il
percorso di inserimento sociale. 
    Cosi'  argomentando,  la   Corte   conferma,   dunque,   il   suo
orientamento (espresso da ultimo nella sentenza n.  44/2020)  secondo
il quale la pregressa residenza in un determinato luogo, di  per  se'
considerata, e' priva di qualsiasi valore prognostico circa la futura
stabilizzazione su  un  territorio  (tanto  piu',  puo'  aggiungersi,
quando  l'ordinamento  consideri  anche  la  residenza  discontinua),
dovendosi  invece  avere  riguardo  a  «indici  di  probabilita'   di
permanenza per il futuro». 
    La  Corte,  infatti,  nella   citata   sentenza,   in   relazione
all'accesso all'edilizia residenziale pubblica, ha cosi'  chiaramente
affermato: «La previa residenza ultraquinquennale non e' di  per  se'
indice di un'elevata probabilita' di  permanenza  in  un  determinato
ambito territoriale, mentre  a  tali  fini  risulterebbero  ben  piu'
significativi altri  elementi  sui  quali  si  possa  ragionevolmente
fondare una prognosi di stanzialita'. In altri termini, la  rilevanza
conferita a una condizione del passato, quale  e'  la  residenza  nei
cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea  a
evitare il "rischio di instabilita'" del  beneficiario  dell'alloggio
di edilizia residenziale  pubblica,  obiettivo  che  dovrebbe  invece
essere perseguito avendo riguardo  agli  indici  di  probabilita'  di
permanenza per il futuro». 
    Anche in relazione ai beneficiari del RDC si ripropone la  stessa
valutazione prognostica  e  si  deve  concludere  che  la  preventiva
residenza  non  puo'  ragionevolmente   fondare   una   prognosi   di
stanzialita', essendovi altri elementi  maggiormente  sintomatici  in
grado di attestare tale situazione, come,  ad  es.,  essere  iscritto
all'anagrafe,   essere   titolare   di   un'abitazione,   essere   un
"lavoratore" che, rimasto incolpevolmente privo  di  occupazione,  e'
seriamente in cerca di un nuovo impiego,  essere  genitore  di  figli
regolarmente iscritti al  ciclo  scolastico,  etc.:  tali  condizioni
costituiscono certamente la spia di una piu' che probabile permanenza
nel territorio italiano per il futuro. 
2.12 Posizione  dei  cittadini  UE:  parita'  di  trattamento  con  i
cittadini  italiani  nell'accesso  alle  prestazioni  di   assistenza
sociale. 
    In questa sede, cio' che si deve esaminare e'  la  posizione  dei
cittadini dell'UE nonche' dei loro familiari, titolari del diritto di
soggiorno temporaneo o permanente, presi in considerazione  dall'art.
2 del citato decreto-legge n. 4/2019, convertito in legge n. 26/2019. 
    Occorre premettere che la disciplina del soggiorno dei  cittadini
europei e dei loro familiari (di Paesi terzi) in Italia e'  contenuta
nel decreto legislativo  n.  30/2007  che  ha  dato  attuazione  alla
direttiva 2004/38/CE. 
    Per il soggiorno  non  superiore  a  tre  mesi  (c.d.  «di  breve
durata»)  non  vi  sono  formalita'  particolari  a  carico  di  quei
cittadini e familiari:  in  specie,  essi  godono  della  parita'  di
trattamento rispetto ai cittadini  italiani,  ma  non  accedono  alle
prestazioni di assistenza sociale  che  non  derivino  dall'attivita'
esercitata o da specifiche norme di legge. 
    Il soggiorno superiore a  tre  mesi  (c.d.  «di  lunga  durata»),
invece, e' possibile solo a determinate condizioni che implicano,  in
sostanza, la disponibilita' di risorse sufficienti  per  non  gravare
sull'assistenza  sociale  dello  Stato  ospite  e  da'  diritto,  tra
l'altro, a  svolgere  attivita'  lavorative  e  alle  prestazioni  di
assistenza sociale a parita' di trattamento con i cittadini  italiani
(art. 7, decreto legislativo n. 30/2007). 
    Le modalita', infatti, con  le  quali  l'ordinamento  prevede  la
verifica delle condizioni che fondano il  diritto  al  soggiorno  dei
cittadini dell'Unione  sono  previste  dal  citato  art.  7,  decreto
legislativo  n.  30/2007  e  consistono  nell'iscrizione  anagrafica,
prevista dall'art. 9 del decreto stesso. 
    In sede di iscrizione all'anagrafe il cittadino dell'Unione  deve
dimostrare di essere lavoratore dipendente o  autonomo  o  di  essere
familiare di un lavoratore dipendente o autonomo o di avere  «risorse
economiche  sufficienti  per  non  diventare  un   onere   a   carico
dell'assistenza  sociale  nel  periodo  di  soggiorno»:   una   volta
effettuate  tali   verifiche,   che   competono   all'amministrazione
comunale, il cittadino  dell'Unione  formalizza  il  suo  diritto  al
soggiorno per un periodo superiore a tre mesi e, decorsi cinque anni,
acquisisce il diritto al soggiorno permanente ai sensi dell'art.  14,
decreto legislativo n. 30/2007  («Il  cittadino  dell'Unione  che  ha
soggiornato legalmente ed in via continuativa  per  cinque  anni  nel
territorio nazionale ha diritto al soggiorno permanente ...»). 
    Tale ultimo diritto e'  irrevocabile,  nel  senso  che  prescinde
dalle eventuali successive modifiche della sua situazione economica e
personale. 
    Il punto e' disciplinato dall'art. 16, par. 1 della direttiva,  a
norma  del  quale  il  diritto  al  soggiorno  permanente   «non   e'
subordinato alle condizioni di cui al capo terzo» e, dunque,  neppure
alla condizione di «non diventare un onere eccessivo per  il  sistema
sociale dello stato membro ospitante» (vedi anche art. 14,  comma  1,
decreto legislativo n. 30/2007). 
    Per quel che interessa, i beneficiari del diritto di soggiorno  e
di soggiorno permanente in Italia godono della parita' di trattamento
con i cittadini  italiani  anche  nell'accesso  alle  prestazioni  di
assistenza  sociale  (artt.  24,  direttiva  2004/38  e  19,  decreto
legislativo n. 30/2007). 
    In particolare, l'art. 24 della direttiva precisa quanto segue: 
    «1. Fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste
dal Trattato e dal diritto derivato, ogni cittadino  dell'Unione  che
risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello  Stato
membro ospitante gode di pari trattamento rispetto  ai  cittadini  di
tale Stato nel campo di applicazione del Trattato.  Il  beneficio  di
tale diritto si estende ai familiari non aventi  la  cittadinanza  di
uno Stato membro che siano titolari del diritto di  soggiorno  o  del
diritto di soggiorno permanente. 
    2. In deroga al paragrafo 1, lo Stato  membro  ospitante  non  e'
tenuto ad attribuire il diritto a  prestazioni  d'assistenza  sociale
durante i primi tre mesi di soggiorno o,  se  del  caso,  durante  il
periodo piu' lungo previsto all'art. 14, paragrafo 4, lettera b), ne'
e'  tenuto  a  concedere  prima  dell'acquisizione  del  diritto   di
soggiorno permanente aiuti di mantenimento agli  studi,  compresa  la
formazione professionale, consistenti in borse di studio  o  prestiti
per studenti, a  persone  che  non  siano  lavoratori  subordinati  o
autonomi, che non mantengano tale status o loro familiari». 
    Secondo  la  Corte   di   giustizia   dell'Unione   europea,   le
«prestazioni d'assistenza sociale» fanno riferimento «all'insieme dei
regimi di assistenza  istituiti  da  autorita'  pubbliche  a  livello
nazionale, regionale o locale, a cui puo' ricorrere un  soggetto  che
non disponga delle risorse economiche sufficienti  a  far  fronte  ai
bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia». Tra  queste
prestazioni   assistenziali   possono   essere   annoverate    quelle
«prestazioni  speciali  in  denaro  di  carattere  non   contributivo
previste dalla legislazione la quale  ...  ha  caratteristiche  tanto
della legislazione in materia di sicurezza sociale di cui all'art. 3,
paragrafo 1, quanto di quella relativa all'assistenza sociale» ed, in
particolare, quelle intese «a garantire, alle persone interessate, un
reddito minimo di sussistenza in relazione al  contesto  economico  e
sociale dello Stato membro interessato» (art. 70, par. 2, regolamento
n. 883/2004). 
    Con la sentenza dell'11 novembre 2014  ,  causa  C-333/13,  Dano,
punto 63, la Corte ha  chiarito  che  «"le  prestazioni  speciali  in
denaro  di  carattere  non  contributivo"  previste   dall'art.   70,
paragrafo 2, [del]  regolamento  [n.  883/2004]  ben  ricadono  nella
nozione di "prestazioni d'assistenza sociale" ai sensi dell'art.  24,
paragrafo 2, della  direttiva  2004/38.  Tale  nozione,  infatti,  fa
riferimento  all'insieme  dei  regimi  di  assistenza  istituiti   da
autorita' pubbliche a livello nazionale, regionale o  locale,  a  cui
puo' ricorrere un soggetto che non disponga delle risorse  economiche
sufficienti a far fronte ai bisogni  elementari  propri  e  a  quelli
della sua famiglia e che rischia, per questo, di  diventare,  durante
il suo soggiorno, un onere  per  le  finanze  pubbliche  dello  Stato
membro  ospitante  che  potrebbe  produrre  conseguenze  sul  livello
globale dell'aiuto che puo' essere concesso da tale Stato». 
    Le  «prestazioni  di  assistenza  sociale»   rientrano   tra   le
prestazioni di «sicurezza sociale» di cui al regolamento n. 883/2004,
alle quali il giudice sovranazionale riconduce tutte  le  prestazioni
che vengono erogate dagli Stati membri in base a criteri oggettivi  e
predeterminati, indipendentemente dalla modalita' di finanziamento  e
senza discrezionalita' del soggetto erogatore (vedi, da ultimo, Corte
di giustizia, 2 settembre 2021, causa C-350/20,  O.D.  e  a.c.  INPS,
punti 53 e segg.). 
    Ne consegue che il RDC e la  PDC  -  essendo  misure  rivolte  al
contrasto alla poverta'  assoluta  che  vengono  corrisposte  con  le
modalita' sopra  ricordate  -  possono  rientrare  in  detta  nozione
(avendo appunto lo scopo ex  art.  70,  regolamento  n.  883/2004  di
«garantire,  alle  persone  interessate,   un   reddito   minimo   di
sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello  Stato
membro interessato») e, quindi, debbono essere  concesse  a  tutti  i
cittadini UE in regime di parita' di trattamento. 
    L'art. 24 della direttiva 2004/38 dispone - come abbiamo visto  -
che «ogni cittadino dell'Unione che risiede, in  base  alla  presente
direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode  di  pari
trattamento  rispetto  ai  cittadini  di  tale  Stato  nel  campo  di
applicazione del Trattato. Il beneficio di tale diritto si estende ai
familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato  membro  che  siano
titolari  del  diritto  di  soggiorno  o  del  diritto  di  soggiorno
permanente». 
    Sulla  base  della   direttiva,   la   parita'   di   trattamento
nell'accesso alle prestazioni  di  assistenza  sociale  riguarderebbe
appieno, pero', solo i soggiornanti permanenti, mentre per quelli  di
breve e di lungo periodo, se «inattivi», e' solo discrezionale. 
    Infatti, il par. 2 del citato art.  24,  afferma  che  «lo  Stato
membro ospitante non e' tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni
d'assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno o, se  del
caso, durante il periodo piu' lungo previsto all'art.  14,  paragrafo
4, lettera b)», cioe' qualora «siano  entrati  nel  territorio  dello
Stato membro ospitante per cercare un posto di lavoro». «In tal  caso
i cittadini dell'Unione e i membri della loro  famiglia  non  possono
essere allontanati fino a  quando  i  cittadini  dell'Unione  possono
dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro  e  di  avere
buone possibilita' di trovarlo» (art. 14, comma 4, lettera b). 
    Negli ultimi anni, la Corte ha precisato queste deroghe  in  modo
da evitare che  i  cittadini  europei  inattivi  divengano  un  onere
eccessivo per gli Stati ospitanti. 
    Nel gia' citato caso Dano, il giudice sovranazionale ha ricordato
che tali Stati non sono tenuti a corrispondere dette  prestazioni  ai
cittadini di altri Stati membri non solo  in  caso  di  soggiorno  di
breve periodo (conforme la sentenza del 25 febbraio  2016,  C-299/14,
Garcia-Nieto  e  al.),  ma  anche  qualora  essi  non  rispettino  le
condizioni per  il  soggiorno  di  lungo  periodo,  ad  es.,  se  non
lavorano, non dispongono di risorse proprie sufficienti e soggiornano
con il solo fine di beneficiare di un aiuto sociale. 
    Nella sentenza Alimanovic (15 settembre 2015, causa C-67/14),  la
Corte ha poi affermato la possibilita' di escludere dalle prestazioni
in parola anche quei cittadini di altri Stati membri il  cui  diritto
di soggiorno di lungo periodo nello Stato ospitante  e'  giustificato
unicamente dalla ricerca di un lavoro dopo averlo perso  da  piu'  di
sei mesi, senza che rilevi la dimostrazione di essere alla ricerca di
un nuovo lavoro e di avere buone possibilita' di trovarlo. 
    In sostanza, per la direttiva 2004/38,  come  interpretata  dalla
Corte di giustizia, solo i cittadini europei «economicamente  attivi»
hanno sempre diritto ad accedere a tali prestazioni in condizioni  di
parita' di trattamento con i cittadini dello Stato ospite. 
    Il legislatore italiano, pero', nel disciplinare il RDC,  non  si
e' attenuto a tali principi restrittivi (non avvalendosi della deroga
di cui al citato par. 2, dell'art.  24  della  direttiva),  dato  che
l'art.  2,  decreto-legge  n.  4/2019  richiede  sotto   il   profilo
soggettivo la mera titolarita' della cittadinanza UE per la richiesta
del RDC, ponendosi cosi' come lex specialis e permettendo a  tutti  i
cittadini europei soggiornanti legalmente in Italia  di  accedere  al
beneficio, senza limitarlo a quelli economicamente attivi. 
    Il comma primo di tale norma, infatti, stabilisce che «Il RDC  e'
riconosciuto ai nuclei  familiari  in  possesso  cumulativamente,  al
momento della presentazione della  domanda  e  per  tutta  la  durata
dell'erogazione del beneficio, dei seguenti requisiti: 
        a) con riferimento ai requisiti di cittadinanza, residenza  e
soggiorno, il componente richiedente il beneficio deve essere (...): 
          1) in possesso  della  cittadinanza  italiana  o  di  Paesi
facenti  parte  dell'Unione  europea,  ovvero  suo  familiare,   come
individuato dall'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo
6 febbraio 2007, n. 30, che sia titolare del diritto di  soggiorno  o
del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi  terzi
in possesso del permesso di soggiorno UE per  soggiornanti  di  lungo
periodo ...». 
    Gli stranieri, quindi, che hanno diritto, in presenza degli altri
requisiti ed in particolare di quelli di tipo economico, di  accedere
all'erogazione del reddito di cittadinanza sono: 
        i soggetti aventi cittadinanza in uno dei  Paesi  dell'Unione
europea; 
        i soggetti aventi cittadinanza in un Paese extra-UE  che  sia
in possesso di un permesso di soggiorno  per  soggiornanti  di  lungo
periodo; 
        i soggetti aventi cittadinanza di un  Paese  extra-UE  se  e'
familiare di un cittadino italiano o di  un  cittadino  di  un  Paese
dell'Unione europea ed e' in possesso di titolo di soggiorno di lungo
periodo o permanente. 
2.13 Il requisito della residenza decennale. 
    Tuttavia,  il  legislatore,  al  comma  2  di  detta  norma,   ha
introdotto un altro requisito (cumulativo): il possesso  in  capo  al
richiedente della residenza in Italia «per almeno dieci anni, di  cui
gli ultimi due, considerati  al  momento  della  presentazione  della
domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in  modo
continuativo». 
    Tale  requisito,  avendo  di  fatto  ristretto  il   novero   dei
richiedenti al di la' delle deroghe ammesse dal  decreto  legislativo
n. 30/2007 e dalla direttiva 2004/38, ha l'effetto di  escludere  non
solo i titolari  del  soggiorno  di  breve  durata  ma  anche  quelli
titolari del soggiorno di lunga  durata,  non  importa  se  attivi  o
inattivi, nonche'  un  buon  numero  di  soggiornanti  permanenti  se
residenti da meno di dieci anni. 
2.13.1 Discriminazione indiretta. 
    Occorre, innanzitutto ammettere che il predetto  requisito  della
residenza decennale non rappresenta una discriminazione  direttamente
basata sulla nazionalita' - come tale vietata, ad es., in  base  agli
artt. 18 TFUE e 24 direttiva 2004/38 (per i cittadini europei e  loro
familiari), agli artt. 45 TFUE e 7, par. 2, regolamento  n.  492/2019
(per i lavoratori), e al  citato  art.  4,  regolamento  n.  883/2004
(relativo ai  sistemi  di  sicurezza  sociale)  -  perche'  la  norma
impugnata lo estende anche ai cittadini italiani. 
    Esso pero', ad avviso del  Collegio,  opera  una  discriminazione
«indiretta» dato che sfavorisce i cittadini di altri Stati membri  in
misura maggiore rispetto ai cittadini italiani: per i primi, in  gran
parte nati e cresciuti  al  di  fuori  del  territorio  italiano,  e'
oggettivamente piu' arduo soddisfare una condizione  di  questo  tipo
rispetto a chi, come i  secondi,  puo'  piu'  facilmente  maturare  i
periodi di residenza utili. 
    In altri termini, come affermato dalla  Corte  di  giustizia,  il
requisito della residenza «rischia di operare principalmente a  danno
dei cittadini di altri Stati membri, considerato che  il  piu'  delle
volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (sentenza
del 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione c. Italia, punto 14.
V. anche la sentenza del 18 luglio 2007,  causa  C-212/05,  Hartmann,
punto 31). 
    Il carattere discriminatorio emerge anche dal fatto che solo  gli
ultimi due anni devono essere continuativi: anche in questo caso, per
i  cittadini  italiani  e'  molto  piu'  facile  dimostrare  di  aver
«accumulato» i primi otto anni di residenza nel territorio  italiano,
in periodi anche  lontani  tra  loro  e  spesso  sin  dalla  nascita,
rispetto ai cittadini di  altri  Stati  UE  che  in  buona  parte  si
trasferiscono in Italia  dopo  un  certo  numero  di  anni  trascorsi
altrove. 
    La Corte di  giustizia  -  come  sopra  detto  -  ha  piu'  volte
affermato che le restrizioni fondate sulla  residenza  -  cosi'  come
ogni restrizione delle liberta' fondamentali dei Trattati  -  possono
risolversi in discriminazioni non solo dirette (come nel  caso  della
condizione della residenza imposta dal Belgio solo ai  lavoratori  di
altri Stati membri per l'accesso al c.d. «minimex», una misura simile
al RDC: sentenze del 27 marzo 1985, causa  249/83,  Hoeckx,  e  causa
122/84, Scrivner), ma anche indirette, vietate al  pari  delle  prime
qualora non si basino su considerazioni oggettive indipendenti  dalla
cittadinanza dei  soggetti  interessati  e  non  siano  proporzionate
rispetto all'obiettivo da raggiungere (vedi, ad es., le sentenze  del
18 luglio 2006, causa C-406/04, De Cuyper, punto 40; del  26  ottobre
2006, causa C-192/05, Tas-Hagen e Tas, punto 33; del 23 ottobre 2007,
cause riunite C-11 e 12/06, Morgan e  Bucher,  punto  33;  e  del  18
luglio 2013, cause riunite C-523 e 585/11, Prinz, punto 23). 
    Posto che una misura e' proporzionata nel caso in cui sia  idonea
a  realizzare  l'obiettivo  perseguito  senza  andare  oltre   quanto
necessario per il suo raggiungimento (sentenze De Cuyper, punti 40  e
42;  Morgan  e  Bucher,  punto  33;  Prinz,  punto  33),  il  giudice
sovranazionale ha talvolta valorizzato il requisito del  grado  reale
di integrazione, sostenendo che una  condizione  unica  di  residenza
rischia di escludere  dal  beneficio  i  cittadini  europei  che  non
soddisfino detta condizione ma abbiano,  cio'  nonostante,  effettivi
collegamenti  sotto  il  profilo  dell'integrazione  in  tale   Stato
(sentenza del 26 febbraio 2015, causa C-359/13, Martens, punto 39. V.
anche la sentenza del 13 dicembre 2012, causa C-379/11,  Caves  Krier
Freres, punto 53). 
2.13.2 Sproporzionatezza. 
    Ad avviso del Collegio, il requisito della residenza decennale  e
biennale continuativa di cui  all'art.  2,  decreto-legge  n.  4/2019
risulta sproporzionato perche' privo di ragionevole correlabilita' e,
quindi, indirettamente discriminatorio - proprio in virtu' del  fatto
che non prende in considerazione il grado effettivo  di  integrazione
di quei cittadini europei e loro familiari  che,  pur  risiedendo  in
Italia da meno tempo o in maniera non continuativa negli  ultimi  due
anni,   sono,   sulla   base   di   altri    concordanti    elementi,
sufficientemente integrati nel nostro Paese. 
    In particolare,  tale  ulteriore  requisito  si  pone  in  palese
contrasto con l'art. 24 della direttiva 2004/38/CE, laddove  afferma,
in  tema  di  prestazioni  d'assistenza  sociale,   la   parita'   di
trattamento del cittadino europeo  (vedi  anche  l'art.  19,  decreto
legislativo 6 febbraio 2007,  n.  30  -  Attuazione  della  direttiva
2004/38/CE). 
    Dal Report RDC Aprile 2022 redatto dall'INPS emerge, infatti, che
nell'88%  dei  casi  il  richiedente  la  prestazione  e'   cittadino
italiano, nell'8% e' un cittadino extracomunitario in possesso di  un
permesso di soggiorno, nel  4%  e'  un  cittadino  europeo.  E  cio',
nonostante, dal Report ISTAT 2020 risulta che  la  quota  di  persone
considerate a rischio poverta', che tra i cittadini italiani e'  pari
al 18,9% del totale, sale al 24,2% per i cittadini  comunitari  e  al
36% nel caso degli extra-comunitari. 
    Peraltro, la stessa relazione del  Comitato  scientifico  per  la
valutazione  del  reddito  di  cittadinanza  dell'ottobre  2021,   ha
segnalato, tra  le  maggiori  criticita'  della  misura,  proprio  il
requisito della residenza decennale, responsabile dell'esclusione, di
fatto, di un'ampia parte di  stranieri.  Al  fine  di  superare  tale
problema, il Comitato ha proposto di applicare al  RDC  il  requisito
biennale previsto per il  REM  (reddito  di  emergenza),  ovvero,  in
subordine, di abbassare il requisito a cinque anni. 
    L'ampliamento  della  categoria  dei  cittadini  europei  e  loro
familiari si riverbererebbe in senso favorevole anche  sui  cittadini
italiani  che  abbiano  o  non  abbiano  esercitato  i   diritti   di
circolazione dei Trattati UE. Quanto ai primi, da tempo la  Corte  di
giustizia ha affermato che non  si  ricade  in  situazioni  puramente
interne - e che, quindi, le norme del diritto UE possono essere fatte
valere nei confronti dello Stato membro di cittadinanza - nel caso in
cui i cittadini nazionali  beneficino  o  abbiano  beneficiato  della
liberta' di circolazione. Pertanto, i cittadini italiani che  abbiano
spostato la propria residenza in altri Stati  membri  e  siano  a  un
certo punto rientrati in Italia sarebbero  trattati  in  maniera  non
meno favorevole dei cittadini europei  e  loro  familiari,  accedendo
cosi' al RDC e alla PDC alle stesse loro (piu' favorevoli) condizioni
anche se non soddisfano il requisito della residenza  indicato  dalla
normativa. Peraltro tali cittadini italiani, cosi'  come  quelli  che
non hanno mai usufruito del  diritto  di  circolazione  e  che  cosi'
subirebbero una discriminazione  c.d.  «a  rovescio»,  si  vedrebbero
garantire la parita' di trattamento anche in base all'art.  53  della
legge n. 234/2012, per il quale «nei confronti dei cittadini italiani
non trovano applicazione norme dell'ordinamento giuridico italiano  o
prassi interne che producano  effetti  discriminatori  rispetto  alla
condizione e al trattamento garantiti  nell'ordinamento  italiano  ai
cittadini dell'Unione europea». 
    Alla  luce  delle  sopraesposte   argomentazioni,   i   cittadini
dell'Unione, aventi diritto di soggiorno, si trovano in posizione del
tutto analoga a  quella  esaminata  dalla  Corte  costituzionale  del
soggiornante extracomunitario di lungo periodo,  potendo  perdere  il
diritto al  soggiorno  solo  in  casi  eccezionali,  analogamente  al
titolare del permesso di  lungo  soggiornante  (che  ha  ottenuto  il
titolo dopo cinque anni  di  residenza  in  Italia);  e  non  essendo
sottoposti  alla  procedura  di  rinnovo  della   autorizzazione   al
soggiorno. 
    Ne deriva, allora, che il cittadino dell'Unione avente diritto al
soggiorno soddisfi quella condizione  che,  secondo  la  sentenza  n.
19/2022,  giustifica  l'apposizione  di  requisiti  restrittivi   per
l'accesso a una prestazione di «inserimento sociale» quale il RDC. 
    Sussistendo  tale  condizione,  l'ulteriore  requisito  di   aver
soggiornato per un periodo piu' o meno lungo in  Italia  (in  periodi
eventualmente anche lontanissimi nel tempo), e' - come detto -  privo
di  qualsiasi  rilevanza  sotto  il  profilo  delle  prospettive   di
«stabilizzazione» e, dunque, e' privo di  "ragionevole  correlazione"
proprio secondo i parametri indicati dalla sentenza n. 19/2022. 
    Tutte le predette considerazioni rilevano anche  nell'ambito  del
giudizio  di  «giustificazione»  della  discriminazione  indiretta  e
portano a concludere che il requisito di residenza decennale,  da  un
lato, persegue uno scopo di dubbia legittimita' (aiutare i  bisognosi
di un inserimento sociale solo in quanto «radicati» nel territorio  e
non in quanto bisognosi) e, dall'altro, persegue detta finalita'  con
mezzi sicuramente non «proporzionati e necessari». 
    Il «particolare svantaggio» che grava sui cittadini  UE  a  causa
del predetto requisito non e', quindi, giustificato ed e' percio'  in
contrasto  con  il  divieto  di  discriminazione  in  ragione   della
nazionalita' nell'accesso ai vantaggi sociali ex art. 7, par.  2  del
regolamento e anche con il diritto alla parita' di trattamento di cui
all'art. 24, direttiva 2004/38. 
    Va inoltre osservato che la  scelta  di  premiare  il  «bisognoso
stanziale» rispetto al «bisognoso mobile» non e' sostenuta da  nessun
argomento convincente: anzi, la persona bisognosa tende  naturalmente
a spostarsi al fine di ricercare nuove  opportunita'  e  poter  cosi'
diventare, appunto, meno bisognosa; chi invece ha gia' un  tenore  di
vita dignitoso -  anche  solo  per  il  fatto  di  aver  ottenuto  un
contratto di locazione decente o per essere  riuscito  ad  acquistare
una casa, anche se di qualita' minimale - tendera' naturalmente a una
minore mobilita': ma appunto se ha gia' raggiunto un decoroso livello
di  vita  non  dovrebbe  essere  collocato  al  primo  posto  tra   i
destinatari di interventi di sostegno. 
    D'altra parte, varie ricerche sociologiche (vedi ricerca  Eupolis
Lombardia del 2015)  dimostrano  che,  in  particolare  nei  contesti
urbanizzati del Nord, i soggetti  piu'  bisognosi  sono  le  famiglie
giovani con elevata mobilita' e quindi con una  bassa  anzianita'  di
residenza nella medesima regione. 
    Infine, se  proprio  si  volesse  ritenere  che  il  «radicamento
territoriale» debba essere uno dei criteri di accesso al welfare, non
e'  neppure  detto  che  il  riferimento  alla  pregressa  residenza,
sganciata da qualsiasi ulteriore elemento di «stabilita'» (quale puo'
essere appunto  un  lavoro  o  un  alloggio)  fornisca  una  prognosi
significativa circa la stabilita' futura del beneficiario;  il  quale
ben potrebbe migrare - per un motivo qualsiasi - anche il giorno dopo
aver avuto accesso a una determinata prestazione. 
    Nella specie, peraltro, il "radicamento" e' garantito  dal  fatto
che, per beneficiare del RDC e del progetto di  inserimento  sociale,
il soggetto debba risiedere stabilmente nel  territorio  dello  Stato
italiano «per tutta la durata del beneficio» (art. 2, lettera a),  n.
2, decreto-legge n. 19/2019). 
    L'erogazione  del  beneficio  e',  infatti,   condizionata   alla
dichiarazione di immediata disponibilita'  al  lavoro  da  parte  dei
componenti il nucleo familiare maggiorenni, nonche'  all'adesione  ad
un  percorso  personalizzato   di   accompagnamento   all'inserimento
lavorativo e all'inclusione sociale che prevede attivita' al servizio
della comunita', di riqualificazione professionale, di  completamento
degli studi, nonche' altri impegni individuati dai servizi competenti
finalizzati all'inserimento nel mercato del lavoro  e  all'inclusione
sociale. 
    Il soggetto beneficiario, quindi,  si  obbliga  a  rispettare  il
«Patto per il lavoro» (il cui contenuto  e'  descritto  nell'art.  4,
comma 8,  lettera  b)  e  ad  accettare  la  proposta  di  assunzione
«congrua» (comma 9) e a  sottoporsi  al  percorso  personalizzato  di
inserimento  sociale  (comma  12  e  segg.),  pena  la  perdita   del
beneficio. 
    Nel caso in cui il bisogno sia complesso, i  servizi  dei  comuni
competenti  per  il  contrasto  alla  poverta'   procedono   ad   una
valutazione multidimensionale del nucleo familiare al fine di avviare
il percorso di attivazione sociale e lavorativa  coinvolgendo,  oltre
ai servizi per l'impiego,  altri  enti  territoriali  competenti.  La
valutazione multidimensionale e' composta da un'analisi preliminare e
da un quadro di analisi approfondito che mettono in  luce  bisogni  e
punti di forza della famiglia al fine di condividere con la  famiglia
gli interventi e gli impegni necessari a  garantire  il  percorso  di
fuoriuscita dalla poverta' che verranno sottoscritti  con  il  «Patto
per l'inclusione sociale». 
    L'adesione a tale progetto personalizzato fa sorgere gia' di  per
se' una «prospettiva di stabilita'» in capo allo straniero, essendosi
questi  impegnato  a  rispettare,  unitamente   al   proprio   nucleo
familiare, il contenuto degli obblighi indicati  nel  patto  tra  cui
quello di seguire il percorso di avviamento al lavoro e di inclusione
sociale. 
2.13.3 Questione principale di incostituzionalita'. 
    In via principale, quindi, questo Collegio  ritiene  rilevante  e
non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 11  e  117,
primo comma, della Costituzione,  questi  ultimi  in  relazione  agli
artt. 21 e  34  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea, all'art. 24, comma 1, direttiva  2004/38/CE  del  Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto  dei
cittadini  dell'Unione  e  dei  loro  familiari  di  circolare  e  di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e all'art.
7, par. 2, del regolamento n. 492/2011 del Parlamento europeo  e  del
Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera  circolazione  dei
lavoratori all'interno  dell'Unione,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  2,  comma  1,  lettera  a),  n.  2),   del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante  «Disposizioni  urgenti  in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»),  nella  parte  in
cui prevede che il beneficiario del  reddito  di  cittadinanza  debba
essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli  ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda  e  per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo». 
2.13.4 In subordine, riduzione del requisito di residenza  decennale:
«punti  di  riferimento»  ricavabili  dal  sistema  che  inducono   a
diminuire il requisito ad  almeno  cinque  anni  complessivi  o  agli
ultimi due anni continuativi. 
    In subordine, se si dovesse comunque ritenere che, nella  specie,
attesa  la  natura  «mista»  del  beneficio,  possa  dirsi  legittima
l'imposizione di un requisito di residenza pregressa, questo  giudice
non puo' fare a meno di osservare che il  requisito  della  residenza
decennale appaia in ogni caso sproporzionato e non ragionevole. 
    Facendo riferimento alla  sopracitata  sentenza  n.  19/2022,  il
Collegio  ritiene  che  l'imposizione  di  un  gravoso  requisito  di
pregressa  residenza  sia  esorbitante  rispetto  ai  confini   della
ragionevolezza e, quindi, non sia funzionale alla ratio  del  reddito
di cittadinanza poiche', se e' vero che «l'orizzonte temporale  della
misura non e' di breve periodo» e che «il legislatore, nell'esercizio
della sua discrezionalita', non irragionevolmente ha  destinato  agli
stranieri  soggiornanti  in  Italia  a  tempo  indeterminato»,   deve
ritenersi, in generale, che il possesso di  un  titolo  di  soggiorno
(quantomeno)  permanente  sia  sufficiente   a   concretizzare   quel
«consolidato radicamento nel territorio» che attesti  la  «stabilita'
della presenza sul territorio» e garantisca, quindi, «l'assunzione di
precisi impegni dei  beneficiari,  diretta  ad  immettere  il  nucleo
familiare   beneficiario   in   un   "percorso   personalizzato    di
accompagnamento all'inserimento lavorativo e  all'inclusione  sociale
che   prevede   attivita'   al   servizio   della    comunita',    di
riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonche'
altri  impegni  individuati  dai   servizi   competenti   finalizzati
all'inserimento nel mercato  del  lavoro  e  all'inclusione  sociale"
(art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, come  convertito)»
(Corte costituzionale n. 19/2022). 
    A tal proposito, la Corte costituzionale (vedi, ad es.,  sentenza
n. 157 del 2021 in  tema  di  patrocinio  a  spese  dello  Stato)  ha
affermato che, anche nei casi in cui sia riconosciuto al  legislatore
la  potesta'  di  disciplinare  la   materia   con   «una   rilevante
discrezionalita'», «tuttavia, questo non sottrae tale  formazione  al
giudizio  sulla  legittimita'  costituzionale,  in  presenza  di  una
«manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' delle scelte adottate (da
ultimo, sentenze n. 97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3  del
2020)» (sentenza n. 47 del 2020), in quanto  e'  necessario  «evitare
zone franche immuni dal  sindacato  di  legittimita'  costituzionale,
tanto piu' ove siano coinvolti i diritti fondamentali e il  principio
di eguaglianza, che incarna  il  modo  di  essere  di  tali  diritti»
(sentenza n. 63 del 2021). 
    A cio' deve aggiungersi che la «ammissibilita' delle questioni di
legittimita' costituzionale  risulta  [...]  condizionata  non  tanto
dall'esistenza di un'unica  soluzione  costituzionalmente  obbligata,
quanto dalla  presenza  nell'ordinamento  di  una  o  piu'  soluzioni
costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo
coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si  veda,  da
ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme  le  sentenze
n. 224 del 2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018;  n.
236 del 2016)» (sentenza n. 63 del 2021). In tale  prospettiva,  onde
non sovrapporre la propria discrezionalita' a quella del  Parlamento,
la valutazione della Corte deve essere condotta attraverso  «"precisi
punti di riferimento e soluzioni gia' esistenti" (ex multis, sentenze
n. 224 del 2020 e n. 233 e n. 222 del 2018; n. 236 del 2016)». 
    Alla luce di tale insegnamento, ad  avviso  di  questo  Collegio,
dall'ordinamento emergono chiari «punti di riferimento» che  inducono
a ritenere che, in relazione ai cittadini UE, possa essere  piu'  che
sufficiente  (per  garantire  l'esigenza  di   una   prospettiva   di
stabilita'  dello  straniero)  la  pregressa  residenza  quinquennale
che da' diritto al rilascio del permesso di soggiorno permanente. 
    Nello specifico contesto, questo giudice rimettente sollecita, in
via subordinata rispetto all'accoglimento delle questioni secondo  il
petitum di cui al  punto  2.13.3,  un  intervento  sostitutivo  della
Corte, segnalando che nell'ordinamento sono rilevabili «precisi punti
di riferimento»  rappresentati  dal  citato  decreto  legislativo  n.
30/2007 che ha dato attuazione alla direttiva 2004/38/CE, prevedendo,
in particolare, che «Il  cittadino  dell'Unione  che  ha  soggiornato
legalmente ed in via continuativa  per  cinque  anni  nel  territorio
nazionale ha diritto al soggiorno permanente ...». 
    Deve pertanto  ritenersi  che  la  residenza  prolungata  per  un
periodo che permetta allo straniero (cittadino UE)  di  acquisire  un
titolo di soggiorno a tempo indeterminato (ovvero non  revocabile  se
non per ipotesi eccezionali) possa considerarsi requisito sufficiente
a garantire il "radicamento territoriale"  in  quanto,  per  ottenere
tale titolo, l'ordinamento ha  gia'  valutato  il  carattere  stabile
della residenza dello straniero. 
    Ne consegue, allora, che la pretesa - per accedere al RDC - di un
ulteriore requisito di lunga residenza non  appare  giustificato  ne'
ragionevole, ma solamente  finalizzato  a  ridurre  la  platea  degli
stranieri che possano beneficiare di tale sussidio. 
    La questione appare rilevante in quanto - come sopra esposto - le
ricorrenti Dumitru, Coruga e Tanasie, al momento della  presentazione
della domanda, risultavano residenti in Italia da meno di cinque anni
(le prime due dal 2016, l'ultima dal 2019). 
    In via subordinata,  questo  giudice  dichiara  rilevante  e  non
manifestamente  infondata,  in  riferimento  agli  stessi   parametri
evocati al punto 1 del  dispositivo,  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  2,  comma  1,  lettera  a),  n.   2)   del
decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (recante  «Disposizioni  urgenti  in
materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»),  nella  parte  in
cui prevede che il beneficiario del  reddito  di  cittadinanza  debba
essere «residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli  ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda  e  per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo»,
anziche' prevedere che il beneficiario del  reddito  di  cittadinanza
che sia cittadino di  uno  Stato  membro  dell'Unione  europea  debba
essere «residente in Italia per almeno cinque anni, di cui gli ultimi
due, considerati al momento della presentazione della domanda  e  per
tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo». 
    Ancora in subordine, appare piu' che sufficiente,  per  garantire
la prospettiva della stabilita', che il beneficiario sia residente in
modo continuativo negli ultimi due anni, come previsto  dalla  stessa
norma impugnata (che pretende pero' che tale requisito  si  inserisca
nell'ambito della complessiva residenza decennale). Il cittadino  UE,
infatti,  dopo  i  primi  tre  mesi,  se  si  trova  in   determinate
condizioni, puo' chiedere l'iscrizione all'anagrafe, dimostrando,  ad
es., di essere un lavoratore subordinato o autonomo nello  Stato;  di
disporre  per  se'  stesso  e  per  i  propri  familiari  di  risorse
economiche  sufficienti;  di  essere  iscritto  presso  un   istituto
pubblico  o  privato  riconosciuto  per   seguirvi   come   attivita'
principale un corso di studi o di formazione professionale, etc. 
    La residenza  biennale  continuativa  rappresenta  senz'altro  un
elemento sintomatico del  radicamento  territoriale  dello  straniero
comunitario il quale,  per  tale  carattere,  risulta  meritevole  di
essere assoggettato al percorso di integrazione sociale prevista  dal
RDC. 
    In  via  ulteriormente  subordinata,  questo  Collegio  dichiara,
quindi, rilevante e non manifestamente infondata, in  riferimento  ai
medesimi parametri evocati al punto 1 del dispositivo,  la  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera  a),  n.
2)  del  decreto-legge  28  gennaio  2019,  n.  4,  convertito,   con
modificazioni,  dalla  legge  28   marzo   2019,   n.   26   (recante
«Disposizioni urgenti in materia di  reddito  di  cittadinanza  e  di
pensioni»), nella parte  in  cui  prevede  che  il  beneficiario  del
reddito di cittadinanza debba essere «residente in Italia per  almeno
dieci anni, di cui gli  ultimi  due,  considerati  al  momento  della
presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del
beneficio,  in  modo  continuativo»,  anziche'   prevedere   che   il
beneficiario del reddito di cittadinanza che  sia  cittadino  di  uno
Stato membro dell'Unione europea debba essere  «residente  in  Italia
negli ultimi due anni, considerati  al  momento  della  presentazione
della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in
modo continuativo».